Le luci della centrale elettrica

Di Enrico, 12 Maggio 2008

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Il 9 maggio è uscito “Canzoni da spiaggia deturpata” il primo e tanto atteso album de Le
luci della centrale elettrica. È stato registrato al Natural HeadQuarter di Ferrara, prodotto
da Giorgio Canali e Max Stirner e pubblicato da La Tempesta Dischi e Infecta Suoni & Affini. È a tutti
gli effetti una delle più belle scoperte di questo 2008. Ve lo consigliamo caldamente, lo
trovate su www.latempesta.org e nei negozi, oltre che ai concerti.
Ecco (1) come Vasco Brondi racconta a RockIt le registrazioni del disco, (2) la recensione
di Enrico Veronese su Blow Up #120 (Le luci della centrale elettrica è in copertina!) e (3) la
piccola intervista di Maurizio Blatto su Rumore #196 (“Canzoni da spiaggia deturpata” è il
disco del mese).
1.
STRUMENTALE // In realtà era settembre ed è stato tutto più facile di com’era dentro di
me. In regia, seduto davanti al mixer, c’era Sambo. Ero andato a prenderlo sotto casa alle
undici meno un quarto di mattina, un orario che di solito non vediamo mai. Nel
parcheggio davanti al Natural HeadQuarter c’era una specie di sole. Giorgio era arrivato col
furgone contemporaneamente a noi. Mi posizionava i microfoni attorno, l’importante era
che fossi comodo che potessi muovermi come volevo. Non preoccuparti. Vai, suona le tue
canzoni come vuoi. Poi ci penseremo. La mia testa era un salvadanaio di preoccupazioni
monetarie, avevo seicento euro di affitti arretrati da pagare e comunque entro due
settimane era meglio se cambiavo casa. Ero abbastanza obbligato, a dirla tutta. E tutte
attorno le mie perplessità nel trasferirmi da te. Ci abbiamo messo qualche giorno, qualche
traccia di voce solo per non sbagliare e per capire dove farle appoggiare quelle parole
martellate dentro. Martellate dentro. Giorgio ci stupiva con la sua dieta mediterranea che
demolirebbe edifici interi ed intere generazioni. E poi i giorni da incastrare per avere lo
studio libero, che non smettevo di ringraziarli, che tutti lavoravano gratis. Fare
volontariato in una centrale elettrica. Giorgio Sambo Manu e lo studio di registrazione.
Anche perché di soldi c’erano solo quelli immaginari da dare alla padrona di casa, tra
l’altro titolare di uno prestigioso studio di avvocati che mi avrebbe fatto estradare. Vedere
che Giorgio le cantava sbracciandosi fuori dalle grate della finestra, verso chi entrava nel
piazzale dello studio, chiunque fosse. E ho percorso chilometri sul pavimento della regia B
che è tre metri per tre, camminando in tutte le direzioni, ascoltando Giorgio e riascoltando
le cose che registravamo. Passando in rassegna tutti gli stati d’animo e dei merli che mi
volavano dentro, che a volte prendevano contro alle pareti dello stomaco.
VOCALE // Poi Sambo aveva altra gente da registrare. Eravamo solo io e Giorgio, nello
studio per le voci che si è costruito in casa di fianco al letto. Ovviamente era arrivato un
discreto raffreddore, a raffreddarmi prima di incidere le voci. Sul tavolo della cucina
trecento bicchieri e dei libri attorno, alcuni li avevo letti. E lui che diceva Sono le due di
pomeriggio si può aprire il vino. Ci mettevamo le cuffie ascoltavamo le parti strumentali e
poi ci sussurravo ci parlavo ci cantavo ci gridavo sopra. Poi diceva sono le sei di
pomeriggio il vino è un po’ peso passiamo alla birra. Poi abbiamo aspettato il fine
settimana per finire perché ovviamente erano cominciati dei lavori in corso nella casa dei
vicini. E di martellate ce n’erano già abbastanza nel disco. Mi stupiva il suo entusiasmo
contagioso, gioiva e inveiva con le braccia alzate per ogni rara apertura in maggiore delle
canzoni. E la sera tornavo nella casa che stavo per lasciare e c’erano le lettere elettroniche
che mi avevi scritto e che leggevo prima di addormentarmi col ventilatore puntato
addosso. Ho venduto il basso su e-bay con l’aiuto di Nicola. L’ha comprato per ottocento
euro un tipo in Grecia, che diciamo che non si è preso una sonora inculata ma quasi.
Ancora dei merli che mi svolazzavano dentro prendendo contro alle pareti del cuore e
cose così.
MISCHIARE E INSCATOLARE // Anche questa volta non c’era neanche una foto, neanche
una di quelle che si viene male, con gli occhi chiusi, meglio. I mixaggi poi li ho fatti con
Manu in studio, sempre al Natural. Avevamo deciso di dividere così i ruoli. Ed ero andato a
pagare gli affitti arretrati e a duplicare le chiavi per consegnargliene un paio e l’altro
tenermelo e continuare ad abitare là finché potevo. C’era il sole tutti i giorni ma da dentro
si vedeva poco. E le canzoni cominciavano già a camminare da sole e a prendere contro ai
passanti. Poi avrei preso al bar una scatola di cartone avrei portato via quasi tutto e sarei
venuto a stare da te. Abbiamo alzato ed abbassato il volume delle chitarre, abbiamo
fumato, avvicinato e allontanato le voci, fumato, lasciato così com’era molta roba e
stravolto qualcos’altro. E alcune canzoni si lasciavano crescere i capelli, altre decidevano di
tenerli corti, arte volevano l’orecchino, altre volevano già il motorino. Poi non ho avuto più
niente da fare per un mese. // Vasco Brondi
2.
Le Luci Della Centrale Elettrica – Canzoni da spiaggia deturpata * CD La
Tempesta/InfectaSuoni&Affini/Venus * 10t-33:54
A pelle. Il contatto con Le Luci Della Centrale Elettrica è stato urticante quale un vaccino,
come mettersi degli occhiali 3D per guardare la realtà con gli infrarossi e gli ultravioletti
di chi arriva alle cose un secondo prima e ne restituisce una verità irriflessa. A coloro i
quali non avessero ascoltato il furibondo e sconvolgente demo dell’anno scorso, “Canzoni
da spiaggia deturpata” appare come un disco ottimamente prodotto, che illumìna i
pesciolini per mano degli opportuni arrangiamenti di Giorgio Canali e della crew del
Natural HeadQuarter Studio (incidentalmente: sempre più in alto), vidimati da un’editrice in
spolvero come La Tempesta. La voce di Vasco “Vlad” Brondi non caracolla più a mitraglia,
ma si mantiene nei registri sapendo avvitarsi solo quando occorre, dal momento che il
tappeto su cui si agita non è più ordito solo dalla propria acustica bensì soccorre l’elettrica
di Canali a dipingere una trama shoegaze che evolve al divenire dei CSI: il resto lo fa la
vertigine della prosa, che ti fa cadere dentro per intero e vivere come se fosse l’ultimo
giorno prima di una nuova vita (Fare i camerieri). “Canzoni da spiaggia deturpata” è un
deserto affollato e montato al contrario come nel negativo di una fotografia, che esorta al
funerale laico per (gli altr)i cd e porta ad abbeverarsi alle pozzanghere degli Anni Zero con
stile che sarebbe piaciuto a Gaber, per quanto differente dagli Uochi Toki ed Eterea della
“Chiave del 20”. Non c’è un brano che prevalga sugli altri se non per l’effimero sentirSI
personale del momento, trattandosi di capitoli dello stesso romanzo anzi dello stesso
blog, cortometraggi interiori nel disagio dei nuovi outsider in cui anche i giochi di parole
si fanno sinistri (“l’esercito del SERT”) e i fatti non appaiono mai più rassegnati di quanto
sono: le piazze sono vuote –le urne saranno piene?- le piazze sono mute e nemmeno io
mi sento troppo bene. “Si fermavano i tram per deridermi” come succedeva al Corvo Joe,
ora che “gli addetti alla fabbricazione del buonumore sono in cassa integrazione”.
Andiamo quindi a vedere Le Luci Della Centrale Elettrica, distribuiamo il verbo fuori dai
licei per sottrarli al monopolio dei Finley, assaltiamo i cieli finché questa non sarà un’altra
città, disegnata magnificamente da Gipi nella copertina: fuori dalla politica politicata,
prima degli 80 si faceva la rivoluzione usando i mezzi della borghesia mercantile,
disorientandola. Probabile disco italiano dell’anno: (8), ma è poco. // Enrico Veronese
3.
– Vasco Brondi – Le luci della centrale elettrica:
“Ho ventiquattro anni, sono nato nel 1984 quando dicono sia morto il cosiddetto punk.
Adesso vivo tra Milano, Ferrara e un paesino sul lago di Garda a seconda di cosa devo o
non devo fare. Ma in generale direi proprio che sono di Ferrara. Ho fatto il barista per sei
anni, da settembre scorso ho smesso di lavorare, con i concerti muoio d’affitto e di fame
più volentieri”.
– Il contorno paesaggistico dei tuoi brani è spesso angosciante. Lo vedi realmente così
“brutto” o è una metafora per i tempi in cui viviamo?
“Io non lo vedo affatto così brutto, ne parlo perché sono i posti in cui succedono le cose, i
posti dove parcheggiare la macchina per scopare. Per me sono stupende le luci della
centrale elettrica, le stelle non si vedono più, hanno rotto i coglioni. È l’ignoranza, il
degrado mentale di chi vede il degrado ovunque (nei nordafricani seduti sui gradini, nei
cani che pisciano, nelle bottiglie per terra) che mi angoscia, non certo una palazzina di
case popolari o un cavalcavia. Non è per niente una metafora, cerco di guardarmi dentro e
attorno e di trascrivere. I tempi in cui viviamo non sono nè meglio nè peggio di quelli che
sono passati o di quelli che arriveranno, possiamo solo cercare individualmente di
costruirceli come li vogliamo”.
– Ne “La gigantesca scritta COOP” urli che “i CCCP non ci sono più”. Ne senti la mancanza?
L’Emilia è sempre paranoica?
“Ne sento la mancanza perché ci sono pochi gruppi che parlano della realtà in cui vivono,
con coraggio e impazienza. Anche nella musica cosiddetta indipendente, dove non si deve
rendere conto di niente a nessuno, mi sembra che le canzoni siano degradate al ruolo di
giochini carini, delle successioni di accordi con aperture ai ritornelli nel migliore dei casi o
dei fastidiosi deliri da segaioli fuori tempo massimo nel peggiore. No, l’Emilia adesso è
pirotecnica”.
– Tra carri armati e lotta armata, sembra trasparire dai testi una certa nostalgia anni
settanta. Ti mancano anni di rischio e impegno maggiore?
“I carri armati di cui parlo sono parcheggiati. La lotta armata è al bar. Non è nostalgia
anche perché non c’ero, è un periodo che m’interessa molto. Ho letto tutto quello che
trovavo e più che i saggi di storia mi hanno folgorato i libri di Sergio Segio, “Fedeli alla
roba” di Bruno Panebarco, i resoconti sul punk italiano e quelli sugli autori di fumetti di
quegli anni. Volevo farmi un’idea globale di questa colossale e spettacolare sconfitta.
Hanno vinto quelli che adesso sono dei sessantenni sovrappeso che non riescono ad
andare in pensione e che una volta che riusciranno ad andarci, se non moriranno di
miseria abbandonati dallo stato per cui hanno sempre tifato, moriranno di depressione da
non-lavoro. Anche questi anni sono abbastanza rischiosi se non ci si abbandona alla
comodità. L’impegno mi manca, non so neanche cosa sia”.

“Farò rifare l’asfalto per quando tornerai”
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